Allarmanti opinioni emergono in merito ai Bonn Climate Change Talks ad un weekend di distanza dalla loro conclusione avvenuta venerdì 12 giugno dopo 2 settimane di negoziati. Opinioni estremamente dissonanti con quanto espresso precedentemente dallo stesso Direttore Esecutivo della UNFCCC, Yvo de Boer, nel comunicato stampa ufficiale di conclusione dei lavori. E ben diverse dai pur limitati ottimismi che avevamo potuto rilevare nel precedente post dedicatovi.
L’espressione “physically impossible“ che lo stesso Yvo de Boer in data 11 giugno (giusto alla vigilia del termine dei lavori) aveva riservato al raggiungimento di un accordo a dicembre è stata infatti rilanciata da più parti. Il tema più spinoso, come rilevato, concerne la determinazione delle specifiche riduzioni nelle emissioni che ogni Paese accetta di attribuirsi: in merito, opposizioni importanti si rinvengono non solo tra Paesi industrializzati e in via di sviluppo, ma all’interno degli stessi Paesi sviluppati e tra gli emergenti e i Paesi più poveri.
Ed si fa insistente l’opzione di un mercato internazionale delle emissioni anche fuori da un quadro concordato a livello di Nazioni Unite (di UNFCCC dunque), come riportato nello stesso sito ufficiale della Conferenza di Copenhagen. La questione posta è di efficienza: dal momento che qualcosa per ridurre le emissioni va fatto, saranno più efficienti delle misure nazionali legalmente vincolanti sul piano domestico o un complessivo accordo internazionale che vincoli tutti (e che metta d’accordo tutti)?
Una delegittimazione degli sforzi ONU? una sconfitta del multilateralismo? una sconfitta dei Regimi Internazionali e di tutta la Teoria di Relazioni Internazionali che vi giace dietro? un segnale di volontà politica forte contro i gelosismi diplomatichesi interni alle Nazioni Unite, genere se-tu-non-ti-impegni-io-non-mi-impegno e hai-inquinato-e-ti-sei-sviluppato-ora-devi-impegnarti-di-più? una vittoria del buon senso e dell’urgenza di agire comunque? che opportunità, che minacce di tutto ciò?
Di fatto, al momento attuale le Parti sembrano condursi in ordine sparso:
- il Messico, all’indomani della Giornata Mondiale dell’Ambiente che aveva ospitato (5 giugno scorso), ha volontariamente assunto degli impegni di riduzione delle emissioni, espressi, vale la pena notarlo, in tonnellate di anidride carbonica evitate all’anno piuttosto che nelle tradizionali percentuali su volumi di anni precedenti;
- il Brasile non esclude di impegnarsi a sua volta, a sua discrezione, in obiettivi di riduzione; nondimeno il Presidente Lula non si dice convinto di partecipare al Summit di Copenhagen a dicembre;
- la Cina, che evita strenuamente di assumersi qualsiasi impegno vincolante sul piano internazionale, prevede ora di includere nel prossimo Piano Quinquennale, in partenza dal 2011, un obiettivo di riduzione.
Perché dunque opporsi alla fissazione di tetti nazionalmente determinati ma internazionalmente sanciti, di fronte a questi impegni volontari? La Ministro danese al Clima e all’Energia, Connie Hedegaard, auspica che i governi ai loro massimi livelli (e non solo i delegati) si riuniscano al più presto per superare tali particolarismi. Rinunciare ad un approccio internazionale-globale del problema del Cambiamento Climatico potrebbe infatti non solo tradursi in una capacità insufficiente di intervento sul fenomeno, ma anche in un’allocazione meno efficiente delle risorse finanziarie, tecnologiche e politiche per affrontarlo. Ovvero, a maggiori costi per tutti.
Food for thought, per ora. Nutrimento per il pensiero, dicono gli inglesi.